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Il Covid-19 sarà ricordata come un’esperienza unica, non paragonabile a nessun’altra e le esperienze uniche, per quanto collettive, sembrano almeno per ora, non permettere una condivisione dei vissuti. Ciascuno ne è stato colpito a modo proprio, l’unicità diventa solitudine. Pensiamo ad esempio, allo spazio che è stato dato ai giovani. Vengono dopo gli anziani, perché rischiano di più, ma anche dopo gli adulti, perché lavorano… persino dopo i bambini. Insomma, quanto spazio resta per i giovani? E come stanno?

Si è pensato che abbiano la forza per capire e il tempo per aspettare, tanto hanno tutta la vita davanti!!! Ma sono gli altri a dirlo, perché i giovani sentono solo che sono mesi importanti della loro vita ad andare sprecati, persi per sempre. Si è insegnato loro a essere veloci, pronti e poi all’improvviso, ci si aspetta che in modo flessibile possano restar del tutto fermi, senza sapere fino a quando. Costretti così a sentirsi inutili, privati della loro normalità, con la nostalgia per le piccole banali cose quotidiane, obbligati a giorni tutti uguali, dove il mondo fuori è chiuso e vuoto come il proprio tempo: c’è l’ansia di fare delle cose ma poi si continua a rimandare all’infinito, tanto oggi e ieri sono uguali, che differenza fa? Poi uno dice che soffre di insonnia, perché resta sveglio fino a tardi a guardare il cellulare, che ingrassa perché riduce sempre di più le proprie attività! In psicologia si parla di “impotenza appresa” quando in una situazione, qualunque cosa tu faccia, sembra priva di efficacia, allora ad un certo punto ti fermi e rinunci a nuovi tentativi. Ecco, i giovani sono stati costretti ad apprendere l’impotenza, perché il futuro è incerto, c’è un quotidiano bollettino sulle persone morte o malate. Anche se si terminano gli studi, poi non si può cercare lavoro. Si è detto che sarebbero stati contenti senza scuola e a loro agio con un mondo di contatti virtuali. Non è così. La prima cosa che i ragazzi cercano appena passa la zona rossa è sempre e comunque incontrarsi. In un periodo di crescita, la propria identità ha bisogno di riti di passaggio e di confronti sociali per potersi definire. Le statistiche raccontano che i ragazzi si sentono più soli e che i social non bastano, hanno anche manifestato per tornare a scuola. Per chi li avevamo presi?

Ad esempio, pensiamo agli studenti fuori sede: sono davvero così contenti di tornare a casa e restarci per un tempo illimitato? Annullati i contatti dell’università, i riti di passaggio, gli impegni e i progetti a breve e lungo termine. A casa si ritrova la propria cameretta, ma non c’è traccia della vita più recente. Si torna indietro di mesi. In luoghi fermi nel tempo e in spazi ridotti, perché a contatto costante con tutti i famigliari. Il Covid ha messo a dura prova il confronto sulla “confidenza familiare” perché un buon legame ha una funzione protettiva, ma le relazioni disfunzionali sono distruttive. Sappiamo che è in famiglia che si impara a definire la propria identità e la qualità delle relazioni… ma anche i sintomi. Come coltivare la propria intimità in una casa affollata? Si è obbligati ai rapporti virtuali, ma quanto può resistere una relazione recente alla distanza?

Che senso ha viversi solo al telefono? La tecnologia non può sostituire il contatto umano e gli odori. I sentimenti di vuoto o lo sconforto sono pronti ad emergere, perché si sente che nulla abbia molto senso e questo aumenta il proprio isolamento, in un circolo vizioso che fa sentire depressi e rende i propri bisogni incompresi. Quanta pazienza si può imporre alla propria sessualità? È normale litigare e lasciarsi. Per altri, ad avercelo un partner da cui separarsi! Il Covid impedisce di uscire e trovare un* compagn* da lasciare!

Senza futuro, senza compagnia, senza considerazione, a questi giovani dovremmo chiedere scusa: hanno il diritto di essere irritabili e stanchi, impauriti per il loro futuro e la loro salute, come tutti, perché come tutti hanno fatto anche loro la propria parte.